La sentenza della Corte di giustizia europea che ha recentemente vietato la denominazione “latte” per gli alimenti vegetali a base di soia per non confonderli con gli alimenti di natura animale come il latte, sicuramente ha l’intento di garantire la trasparenza e di tutelare i consumatori nelle loro scelte d’acquisto, cautelandoli dalle frodi.

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Ci sono però tre considerazioni che mi sorgono spontanee su questo tema così delicato. La prima è che il termine “latte” per i prodotti a base di soia ha aiutato molti consumatori a identificare un prodotto la cui funzione è alternativa a quella del latte. Quindi banalmente, chiedere al bar un cappuccino con il latte di soia significa semplicemente identificare un prodotto alternativo al latte che per questioni etiche o di salute si vuole utilizzare. Personalmente quindi vedo molto di più l’accezione latte per aiutare il consumatore ad individuare un prodotto che non sia a base di proteine animali più che il fatto di trarlo in inganno con una dicitura che genera confusione, anche se ciò ovviamente non si può escludere.

La seconda considerazione riguarda il mercato dei prodotti vegetali che sostituiscono il latte, mercato che è in forte crescita, quantomeno secondo i dati Nielsen che riportano un + 7,8 % nello scorso anno pari a circa 200 milioni di euro in Italia, e soprattutto che certificano un trend inarrestabile. E’ facile quindi pensare che in un contesto molto competitivo e fortemente in crisi come quello del latte, sia in corso una battaglia commerciale a tutela di questo comparto a tutti i livelli.

Anche perché se no non si spiegherebbe la mia terza osservazione, ovvero che per i prodotti vegetali sostitutivi della carne la situazione è esattamente opposta: il cosiddetto “meat sounding”, ovvero i prodotti denominati ad esempio salame vegano, spezzatino di soia, bistecca di tofu, hamburger di soia o bresaola vegana, vede la posizione favorevole della Commissione europea. In particolare lo scorso anno, a fronte di un’interrogazione su questo tema da parte di due europarlamentari italiani presentata il 28 ottobre, la Commissione ha stabilito che i termini «fettina», «bistecca», «cotoletta» e simili si possono usare anche per i prodotti vegan. Il divieto dell’utilizzo di tali denominazioni è previsto solo nel caso in cui si riferisca a «denominazioni espressamente tutelate», ovvero a prodotti Igp e Dop come la bresaola, la mortadella o il prosciutto.

Cosa dire? Francamente credo che i parlamentari europei e la Commissione dovrebbero focalizzare il loro lavoro su un’etichettatura trasparente e chiara, l’unica che portata avanti in modo rigoroso possa garantire la salute e le scelte d’acquisto consapevoli dei cittadini.