Nel completamento del Mercato Unico Europeo, il Movimento 5 Stelle non vuole che ci sia un appiattimento cieco degli standard, ma che venga sviluppata una concorrenza ad armi pari tra imprese di qualsiasi provenienza, garantendo la tutela delle peculiarità, della cultura e della storia di ogni territorio.

La Commissione dichiara che uno dei tre obiettivi principali della Strategia sul Mercato Unico è “assicurare benefici pratici per i cittadini nella loro vita quotidiana”.

Negli anni passati abbiamo avuto un Single Market Act 1 e un Single Market Act 2, eppure le difficili discussioni sul Brexit di questi giorni, con il rischio che il popolo britannico voti per abbandonare l’UE, e in generale la recente crescita anche nell’opinione pubblica di altri Paesi di un atteggiamento critico se non del tutto sfavorevole nei confronti dell’Unione, ci dovrebbe far intuire che questi “benefici pratici” o non sono stati conseguiti o non vengono percepiti. In ogni caso, si tratta di un fallimento.

E se da un lato possiamo certamente dare la colpa agli Stati membri, che spesso sono lenti, se non restii, ad applicare le norme europee di armonizzazione, dall’altro forse c’è da chiedersi se questo mercato unico lo stiamo disegnando nel modo giusto, con la necessaria convinzione e il necessario coraggio.

Prendiamo ad esempio le PMI, su cui si focalizzano sia la comunicazione della Commissione sia il documento della relatrice. Si dice che bisogna aumentarne la competitività: ma per farlo dobbiamo prima metterle in grado appunto di competere “ad armi pari”: ciò che succede invece è che molte aziende valide si trovano svantaggiate rispetto ad altre non per carenze proprie ma per differenti situazioni “ambientali”, ad esempio la maggiore difficoltà ad accedere al credito in alcuni Paesi, o la differente tassazione e pressione fiscale. Se non riusciamo a garantire un “livello di gioco” uguale per tutti, continueremo a far sì che ad avanzare non siano davvero le aziende più meritevoli ma quelle che per loro fortuna si trovano immerse in una congiuntura maggiormente fortunata.

Diciamo di voler abbattere le barriere, ma nel frattempo permettiamo che permangano ostacoli, come le pratiche di geoblocking, alla circolazione di merci e servizi, che mascherano in realtà nella maggior parte dei casi interessi protezionistici opposti al mercato unico. Mi aspetto una presa di posizione da parte della Commissione ma anche da parte del Parlamento contro queste pratiche, laddove non siano giustificate da criteri oggettivi.

Per contro, invece, invochiamo il principio della libertà di circolazione per bloccare qualsiasi tentativo di istituire un regime chiaro e uniforme di indicazioni di provenienza e di luogo di produzione, sia per i prodotti agroalimentari che per quelli artigianali e industriali, cosa che invece fornirebbe ai consumatori un importante strumento per effettuare scelte di spesa consapevoli. Fa bene la relatrice sia ad esortare la Commissione ad avanzare una proposta per una norma in materia di indicazioni geografiche per i prodotti artigianali sia a chiedere che si proceda al fine di concludere l’iter legislativo del pacchetto sicurezza.

E ancora, il caso dell’economia collaborativa. Apprezzo l’impegno assunto dalla Commissione per elaborare delle regole di base comuni in modo da armonizzare il quadro normativo di un settore nuovo e che sta creando situazioni complesse in molti ambiti.

Mi chiedo però perché la Commissione non sia riuscita, negli anni scorsi, ad accorgersi del fenomeno. L’economia collaborativa non è nata da un giorno all’altro, e anche se solo recentemente è stata apprezzata dal grande pubblico, il suo sviluppo è stato graduale. Il compito della Commissione dovrebbe essere quello di riuscire a “prevedere” o almeno rilevare in anticipo questi fenomeni, al fine di aggiornare la normativa passo passo, senza arrivare agli scontri cui assistiamo in questi mesi. Mi auguro che non si stia sottovalutando ora qualche fenomeno che, tra qualche anno, potrebbe assumere importanza.