So che non dovrei farlo, non dovrei parlare di questo progetto perché più se ne parla e più gli diamo spazio, ma come si fa a non parlarne?

Un progetto come questo è sbagliato sotto molti, troppi punti di vista, e dà una rappresentazione fuorviante di ciò che è la cultura agro-alimentare italiana, la decontestualizza, la impoverisce. E’ come vedere il fotogramma di un altro film.
Faccio alcune considerazioni e per una volta mi soffermo più sugli aspetti imprenditoriali e meno su quelli politici.

Questo progetto è sbagliato nella sua concezione, (come scrive in proposito The Guardian), “in diretto contrasto con il fascino tradizionale della gastronomia italiana, il piacere di vagare per i mercati contadini nelle piazze rinascimentali, o assaggiare le delizie dei piccoli produttori delle città collinari”. Trovare tutto ciò in un luogo che può sembrare un aeroporto o un enorme centro di stoccaggio è veramente difficile, e soprattutto non rappresenta la cultura commerciale alimentare italiana.

E’ sbagliato nella sua visione prospettica: l’onda lunga dei grandi centri commerciali, delle enormi superfici è finita. Negli Stati Uniti ciò non è un’opinione, sta accadendo, e quel paese è sempre stato anticipatore delle mutazioni distributive. Quello che sta avvenendo negli States è definito come “l’Apocalisse delle grandi superfici”: chiudono i battenti uno dietro l’altro. Nel giro di pochi mesi, dalla fine del 2016 all’inizio del 2017 lì si sono chiusi più di 4.000 negozi all’interno dei centri commerciali con una perdita di circa 100.000 posti di lavoro. Le grandi superfici stanno cedendo il passo inesorabilmente al commercio elettronico ma non da ieri, da almeno 5 anni.

In Italia non è che vada tanto meglio: gli indicatori di frequentazione e acquisti dei centri commerciali sono in calo, rispettivamente del 6,9% e del 3,9% a favore di internet (che cresce del 5,2% in frequentazione e addirittura del 24,6% negli acquisti). Per chi non lo sapesse nel 2005 vennero aperti 57 centri commerciali in Italia, nel 2017 ne sono stati aperti 34 in tutta l’Europa occidentale. E qui siamo solo all’inizio della discesa. Gli esuberi di centinaia di persone che lavorano da Auchan, Carrefour, Mediaword sono dati di fatto, come l’elevato turnover dei negozi indipendenti che non reggono il peso dei costi di gestione.

Il M5S più di una volta ha sollevato dubbi sul fatto che dovrebbero arrivare in quell’area 17 mila persone al giorno per 4.200 posti di lavoro; è difficile che Fico richiami tanta gente quanto il Colosseo (6,4 milioni); il M5S teme che il conto sia pagato anche con soldi pubblici. Ricordo infatti che proprio il M5S bolognese lo disse: “Il parco agroalimentare sorgerà sui terreni pubblici del Caab, il mercato ortofrutticolo di Bologna. Non c’è stato un bando”. Oscar Farinetti replicò: “Non sono io privato che devo decidere se fare un bando. Non ho voglia di mettermi a discutere con gente che si occupa solo di scandali e non di bellezza”.

E’ sbagliato perché apre ancora una volta nuove ferite nel suo stesso territorio, nei centri storici di Bologna e dell’hinterland, depauperandoli del loro commercio di prossimità che, spostando il focus su quest’area, andrà ancora più in crisi.

Potrei continuare ancora, parlando di contratti lavoro, di etica di alcune aziende fornitrici, ma mi fermo qui con quest’ultima riflessione: questo luogo che vorrebbe diffondere la cultura agro-alimentare italiana, il biologico, il km zero e il prodotto sano e salutare, e che riesce a posizionarsi a un chilometro e mezzo da uno dei più grandi inceneritori dell’Emilia Romagna, quanto è credibile?

Quanto è credibile Farinetti che dichiarava nel 2014: “Io… se c’è un inceneritore che fa male alla salute di sicuro non apro perché sarei un delinquente”? Un’affermazione da Oscar.
Le persone non si giudicano da quello che dichiarano vorrebbero fare, ma da quello che in realtà fanno. E allora, giudicate voi.